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La Tedesca
di Mario Berto
 
 
   

 

    Come ogni persona, un nome doveva averlo, ma nessuno lo conosceva. Passava per la “tedesca” e, già dai giorni successivi alla liberazione, girovagava di paese in paese. Qualcuno aveva notato che quel suo andare in giro, sempre col fazzoletto nero in testa, era per nascondere i segni della punizione subita nei giorni del “redde rationem”. Gìà il giorno dopo la dipartita dei tedeschi, tanti, temendo la vendetta, erano spariti dalla circolazione. Emigrati dicevano. Qualcuno fu trovato morto, sparato dentro un fosso, altri mandati in ospedale con le ossa fracassate e le donne poveracce, umiliate che di più non si sarebbe potuto: rapate a zero e costrette a girare per le strade, anche a seno scoperto e con al collo la scritta: “puttana tedesca”.
     Lei era stata una di loro, lo diceva il nomignolo e, dopo l'umiliazione la “tedesca” non si fece più vedere al suo paese. Si mise in strada a girovagare, a mendicare in luoghi dove nessuno poteva riconoscerla. A rubare, dicevano le donne e, non appena la sua figura appariva da qualche parte, come le chioccie alla vista della poiana, davano subito l'allarme. Era tutto un passaparola da casa a casa:
     <<Maria, eà staga tenta! In giro ghe xe la “tedesca”. I me ga dito ch'eà xe lesta de man e eà fa sparire e arte.>>  Forse per questo Maria legava il cane vicino al filo della biancheria stesa ad asciugare. Perchè Reno, il bel cane meticcio, abbaiava come un forsennato quando vedeva un estraneo. Da sbranarlo. Così “e arte” appese al filo erano al sicuro.
     In quei giorni di calura però, anche l'accorta massaia abbassava la guardia. Chi poteva andare in giro con quel caldo? Nessuno! C'era da schiattare a mettersi in strada. Tranne lei, la “tedesca”.
     L'afa opprimente costringeva a tenere socchiusi gli scuri e le porte di casa, soltanto le finestre poste a nord erano spalancate. Maria diceva che così si creava un giro d'aria e un po' di fresco.  Il respiro del “vecio Toni” era pesante e nell'espressione del viso si leggeva la sua sofferenza. Aria, aria, gli mancava l'aria, povero Toni. Non l'aveva ucciso i quarant'anni costretto sul seggiolone dall' artrite, invece, lo stava uccidendo il caldo afoso di quei giorni. Eppure, trascinandosi col suo seggiolone, s'era messo vicino al vano scale da dove scendeva o saliva una parvenza di brezza e intanto sbirciava fuori, fin sulla strada. La vide passare,...le mancava la falce, pareva la morte. Aveva visto la “tedesca”, e gli venne da pensare a mezza voce:
     << A sta ora? ...La va a far malani.>> e tirò un sospiro, in cerca dell'aria che gli mancava. Afa, afa, afa da morire!
     Tutti in casa invocavano la pioggia. Là intorno, il mondo intero aspettava la pioggia.
     <<Un buon temporale, ci vorrebbe>> ripeteva Maria, quando passava davanti a Toni, e lui assentiva e col fazzoletto si toglieva il sudore dalla fronte.
     Era un giorno così, fermo. Immobile anche l'aria e tutti in attesa di qualcosa che rompesse la morsa dell'afa e l'assordante frinire delle cicale. In quella immobilità, lo sguardo pareva galleggiare sul riverbero tremolante della calura. In giro nessuno, soltanto un cane ansimante e con la lingua a penzoloni in cerca di refrigerio. Neanche un volo d'uccelli, nessun richiamo d'usignolo, soltanto guizzi di libellule che all'improvviso pareva si fermassero sospese nell'aria e il fastidioso assedio delle mosche, rese aggressive dalla forte umidità. Maria, china sul mastello aveva finito di lavare i panni, li aveva appena strizzati e si apprestava a stenderli sul ferro teso a fianco casa, prima però volle andare sistemare qualcosa in cucina e passando davanti a Toni, lo sentì bofonchiare:
     <<Xe pena passà eà “tedesca.”>>  E Maria:
     <<Ah sì? Eà gheto vista? ...Miga go messo e arte a sugàre, ...sarà mejo ca e meta pi tardi.>> e andò in cucina a guardare la pentola. Spense il fuoco e sedutasi, fu assalita dal pensiero della “tedesca”. Una donna misteriosa che, per quella sua vita randagia, un po' le faceva compassione . Nessuno sapeva da dove venisse, una donna della quale conosceva soltanto la voce, perché bussando alla porta chiedeva la carità. S'era anche provata a intrattenerla con qualche domanda. La “tedesca” però,  bevuto il solito bicchiere di vino, abbassava la testa e rispondeva:
     <<Buongiorno signora!>> e senza dire altro riprendeva il suo andare di casa in casa, di porta in porta, vestita sempre di grigio e di nero,  avvolta nel suo mistero.
     Era passato anche Costante, il carrettiere, seduto sulla carretta vuota del trasporto sabbia. Il cavallo era stanco e ai lati del morso gli colava la bava bianca della fatica. Ultimo giro di giostra, su e giù dal cantiere e poi, biada e abbeverata. Era una di quelle giornate che soltanto la canicola agostana sa regalare, ma questa sembrava ancora più insopportabile.
     Ad un tratto, un rintocco di campana, un altro, e un altro ancora... Era mezzogiorno. I dodici rintocchi rotolarono nell'aria, resa densa ed opaca dall'afa, fin dentro casa e subito a seguire il “segno”. Il suono si propagò ovunque, sui tetti delle case, sui campi, entrò nelle stalle, nelle stanze, nelle cucine. Lontano, da campanili diversi l'eco di altre campane giungeva gradito anche alle orecchie di chi s'era steso all'ombra degli alberi a riposare. Allora la casa si animava. La donna  apparecchiava la tavola, scodellava un'appetitosa zuppa o minestra e riempiva il boccale d'acqua fresca al limone.
     Finito di pranzare, il marito andava a stendersi sul letto, seguito di lì a breve dalla moglie. Non c'era bisogno di malizia per capire che i tempi dell'amplesso venivano scanditi dal lento, a volte frenetico, cigolare del letto e che il crepitio che faceva sorridere, involontario ascoltatore al piano di sotto, anche “el vecio Toni”, non era di legno che bruciava, ma di movimenti convulsi del letto che si ripercuotevano sull'assito e si propagavano nel silenzio della casa. Per i ragazzi invece, mandati controvoglia a riposare, era il segnale di libera uscita fuori ordinanza: scappare di casa e perdersi nella campagna per le solite scorrerie pomeridiane.
     Proprio in quell'ora, ferma nel tempo del meriggio estivo, anche la “tedesca”, con fazzoletto nero in testa legato sotto il mento, con una camicetta grigia e gonna ampia e nera che toccava quasi le caviglie, col viso ragrinzito dalle rughe infertele più che dal tempo dal suo vivere randagio e dagli stenti, si aggirava per le strade bianche di campagna. 
     La donna, come un fantasma, senza essere vista, entrava nei cortili delle case. Bussava alle porte per la carità di un pezzo di pane, o di un bicchiere di vino. A volte però, quando la porta a cui aveva bussato non si apriva e nessuno le dava retta, incurante dell'abbaiare del cane, entrava nell'orto per servirsi da sola di qualche pomodoro, di qualche carota, e se le capitava, adocchiata una camicia, o un lenzuolo, o una gonna stesi ad asciugare, con destrezza la staccava dal filo e la nascondeva nella sua capace sporta o sotto le ampie gonne e, senza farsi notare come era venuta, così si allontanava.
     Accadde anche quel pomeriggio. Nonostante il caldo opprimente, “eà vecia”, così la chiamavano i ragazzi, era nei paraggi. Dopo aver girovagato di aia in aia, era capitata davanti alla porta di Tito. La videro bussare. Poi, ferma davanti all'uscio ad aspettare, mentre il cane aveva tentato un abbaio. Non si affacciò alcuno. La osservarono che sbirciava di traverso la porta appena socchiusa. Ancora nessuno. Silenzio, caldo, afa e lei davanti alla porta semichiusa. Un battito di ciglia, un momento e la “tedesca” non c'era più. La scorsero ferma dietro casa. Si guardava in giro. Lanciò un'occhiata torva agli intrusi. I ragazzi scapparono come per evitare le malìe di una strega. La videro poi, sbuccare dal vigneto, agile, lesta, attraversare il fosso e salire sulla strada bianca. La “tedesca” ora, si trascinava stanca e affaticata. Sembrava. Con sporta sporca e lisa a tracolla,  fazzoletto nero in testa, lentamente si allontanava, ma da Tito, sul filo teso dietro casa, le belle lenzuola bianche non c'erano più. In fondo alla strada, un puntino nero danzava nel riverbero della calura, spariva. La “tedesca”.

Mario Berto

 

   
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