So per esperienza che, a conquistare la cima di una grande montagna, un brivido sulla schiena si prova sempre, non tanto per il freddo, ma per la scarica di adrenalina e per la soddisfazione, dopo chissà quale sforzo, di toccare il cielo. La verità è che da sempre l'uomo si è misurato con la montagna e da sempre ha considerato le cime delle montagne le dimore degli dei. Sono luoghi privilegiati dove il pensiero di Dio nasce spontaneo, e viene naturale dialogare con Lui. Tuttavia, che quattro giovanotti, qualcuno non più tale, si mettano in viaggio dall'Italia per l'Argentina, per andare a sedersi sull'ultimo sasso posto dal Creatore sulla cima della montagna più alta d’America, circa 7000 metri, danno di che pensare. No, digo! Se-te-mi-la-me-tri xe sete-kilometri! Allora si pensa: primo, che no i sia del tuto a posto; secondo, che no i gabbia tuto el so ben; terso, che qualche rodèa la ghe gira storta, parchè cascà dal caregòn da picinini". Per il momento però, vi posso assicurare che sembrano tutte persone normali: un ottico, un infermiere professionale, un impresario edile e un operaio specializzato di fino. Più normali di così?!
L'emozionante avventura che questi coraggiosi hanno vissuto e che vi sto per raccontare, ha inizio il 30 dicembre 1994, quando, storditi dalle mille raccomandazioni delle mogli e degli amici, i nostri quattro: Paolo, Lorenzo, Piero e Mario, all'aeroporto di Venezia partirono per Roma e a Fiumicino presero il volo per l'Argentina, diretti a Buenos Aires. Dovevano essere in cinque a raccontarci la storia invece, uno del gruppo all'ultimo momento, un po’ per paura (lui non vi dirà mai che è stato questo il motivo), un po' per il lavoro, e sciorinando mille altre scuse, s'è ritirato, con buona pace di Teresa, sua moglie.
Erano mesi che i quattro amici rodavano le loro gambe. Senza sosta, per tutta l'estate e tutto l'autunno, sono andati su e giù per le Dolomiti, Grappa, Carega, Monte Rosa, Colli Euganei, e marce domenicali estenuanti. Tutte le occasioni erano buone per la preparazione atletica ed arrivare il più preparati possibile all'appuntamento.
Così raccontano:
Il mattino del 31 dicembre, dopo 17 ore di volo, siamo in vista della costa del Sudamerica e sotto di noi si profila la lunga spiaggia di Mar del Plata, poco oltre come una grande cartina topografica, si apre nei suoi quartieri ben squadrati Buenos Aires, l'immensa metropoli dove, con i suoi 17 milioni di abitanti, vive oltre la metà della popolazione Argentina. Un'ora dopo, espletate le formalità di sbarco, siamo confusi con i turisti, per le strade della capitale a tenere compagnia agli improvvisati complessi folk che si esibiscono ad ogni angolo di strada. Siamo in piena estate australe e perciò si decide per una capatina a la plaja, a gustarci qualche ora di sole e dare l'ultimo tocco di colore ai lunghi allenamenti fatti nel freddo delle nostre Alpi, o immersi nella nebbia delle nostre valli. Sulla spiaggia argentina siamo spettatori dell'ultimo tramonto dell’anno e, l’indomani, della prima aurora del nuovo anno, il 1994..
E’ il primo di gennaio e, nonostante la confusione, siamo riusciti a prendere a noleggio una capace auto americana. Caricati i bagagli, poco dopo eravamo già sulla strada che da Buenos Aires porta a Mendoza. Oltre Milleottocento km di strada attraverso la Pampas: bella, larga, dritta, senza fine e soprattutto deserta. Una di quelle strade che soltanto nel continente americano si possono vedere e percorrere e che ti portano dritto in bocca all’avventura. Di tanto in tanto qualche mandria di bovini, in questo paese se ne allevano oltre 45 milioni di capi, più della stessa popolazione argentina, ed oltre cinque milioni di cavalli. A perdita d'occhio immense distese di girasole, e pascoli, grano e ancora prateria senza fine, pochi alberi. In lontananza una macchia verde:
sono eucalipti, sotto la loro ombra una casa, un negozio, un distributore di benzina e una provvidenziale officina. Finalmente, dopo sei ore di auto con guida in alternanza tra noi, ci possiamo permettere un pasto caldo. Un'ora o due di riposo, e poi via sulla strada, verso le Ande, sotto un cielo da favola. Nuvole bianche, sfumate di rosa, rosso, ciclamino e viola, in fila, a pecorelle. Ancora un po’ e ci troviamo immersi in un magico tramonto. Uno scenario, come dire, da Giudizio Universale. Sull'orizzonte davanti a noi, si staglia nitida la Cordillera, le tanto attese montagne. Mendoza, la nostra meta, non è lontana. Un sospiro.
Anche il clima è cambiato, alle spalle, a oltre 2.000 km, abbiamo lasciato l’Oceano Atlantico, davanti una regione piuttosto arida e le Ande a ripararci dall’umidità del Pacifico. Montagne spoglie e di tanto in tanto il corso di un fiume, di un torrente, il verde di un’oasi. Si giunge ad una stazione di polizia ed espletata qualche formalità burocratica per il permesso di salita, l’indomani, un po’ assonnati per una notte agitata causa il rumore del vento e per gli scossoni alle tendine, dopo una marcia di qualche ora, siamo a Puente de Inca a sollazzarci in una pozza d’acqua sulfurea a 40 gradi centigradi. E’ da questo ponte naturale, che attraversa il Rio Mendoza, che si diparte il sentiero verso l’Acconcagua, la più alta cima d’America, montagna imprevedibile e scorbutica. Lungo la salita, il bel tempo ti può accompagnare per giorni, fino alla cima, mt. 6.969, per un facile sentiero che attraversa tutto il versante a Nord. La difficoltà maggiore è presentata dalla particolare rarefazione dell’aria e l’assenza di umidità. Qui però, ti può sorprendere senza alcun preavviso, spazzando e distruggendo accampamenti e tende il terribile Viento Blanco. L’escursione termica è la principale causa della “puna”, il mal di montagna che ti può rendere uno straccio per giorni. Ci siamo ben documentati, a tutto questo pensiamo mentre in silenzio, un po’ eccitati, seguiamo il passo lento dei muli, affittati a Puente del Inca e, come già tanti coraggiosi prima di noi, andiamo speranzosi verso la realizzazione del nostro sogno.
Ancora un giorno di marcia, ora l’eccitazione è scemata, siamo più stanchi. Attraversiamo una splendida valle desolata, intrisa di colori e con davanti la Regina delle Ande che incombe maestosa, quasi a soggiogare la nostra volontà. La valle, denominata dell’Horcones – già il nome ha un significato sinistro – ci appare ora nera, ora grigia, ora rossa. Ormai si marcia da ore e della valle desolata non si vede la fine. E’ il caso di fermarci per un po’ di riposo, per ristorarci e rimetterci in forze. Poi via di nuovo lungo la valle, verso la montagna. L’incontro di altri coraggiosi ci rinfranca. Marciamo in silenzio. Due giorni ancora e, ecco finalmente Plaza de Mulas mt.4.300 circa. La grande spianata, situata ai piedi della parete Nord dell’Acconcagua, ci appare come un grande accampamento: 100, 200 tendine colorate, tra le quali si aggirano alpinisti di tutto il mondo. Facce sorridenti, facce serie e tristi, bruciate dal sole; occhi vivi, incavati, in visi smunti, magri e labbra screpolate; nasi rinsecchiti, spellacchiati o soltanto rossi per le scottature. 50, 100 lingue diverse: una Babele sotto la grande montagna dai cui sentieri scendono uomini dalla struttura robusta ma dall’aria disfatta, e dall’andatura traballante. Dal loro viso traspare la rabbia e la smorfia dell’insuccesso: si sono arresi, forse per il tempo inclemente, forse la puna o forse …l’Acconcagua. Tutt’intorno sparsi, massi erratici, muti e freddi testimoni di glorie e tragedie. Da qui, per la via normale, si sale alla cima. La visione ci rattrista e cerchiamo le ragioni della nostra presenza. I grandi spazi, i grandi silenzi e la natura che, in questi luoghi, anche se più aspra e cruda, è di una bellezza incomparabile, ci rapisce ed affascina, mentre, la sicurezza e l’esperienza acquisita sulle cime più diverse delle Alpi, dell’Africa e del Pakistan, rafforza in noi la voglia e il desiderio della nuova conquista.
Un giorno, due, per riposare e per l’acclimatazione, con brevi puntate tra i suggestivi penitientes del ghiacciaio dell’Horcones. Un po’ di incertezza per l’improvviso malessere di Paolo che decide di rimanere al campo ad aspettarci.
L’indomani, la voglia di salire ha sgombrato i nostri dubbi ed in tre - Mario, Lorenzo e Piero – puntiamo diritti sul sentiero che porta alla cima, carichi dei nostri zaini e di tanta fiducia. Attraversiamo enormi ghiaie rossastre, raggiungiamo una sella nevosa, prendiamo per la cresta Nord, arriviamo con gran fatica a Nido de Condores, mt 5.500 circa. Montiamo la tendina per la notte, spossati e con un po’ di mal di testa. Ci arrangiamo per una cena frugale ma sostanziosa, anche se l’appetito non è nel suo stato migliore: dobbiamo riprendere energie. Verso sera, il freddo si fa più pungente e non ci è mancata una spruzzata di neve, poca per nostra fortuna: comunque, una notte molto agitata. Una notte che i pensieri ci pareva di toccarli, come anche le stelle, e che ci siamo augurati passasse in fretta.
Ci alziamo la mattina intirizziti e con la testa alquanto scombussolata, diamo un’occhiata alla cartina e al nostro piano di marcia. Sarà un tragitto più breve, solo 500 mt. di dislivello, ma di fatto, la quota ed il peso degli zaini lo rendono interminabile.
Arriviamo al Berlin stanchissimi. Prima di sistemare la tendina, ci sediamo a prender fiato. Il posto è un meraviglioso balcone che si affaccia, a 6000 mt circa, sulle cime della Cordillera e sui nevai faticosamente attraversati il giorno prima. Là vicino ci sono i resti di due piccole costruzioni, ora in disuso, sappiamo che un tempo se n’è servito l’esercito per esplorazioni militari e scientifiche. Rimontiamo per la terza volta la preziosa tendina, poi, un po’ di thè, un pezzo di cioccolato, altre barrette energetiche, altro thè. Qualcuno si discosta per un bisognino. Poi, raggomitolati nei nostri caldi piumini, ad ammirare il tramonto. Un po’ di vento. Cominciamo a sentire più freddo e la testa si fa più pesante ma, per fortuna non ci fa male. Uno alla volta ci rifugiamo in tendina e finalmente riusciamo a smaltire un po’ di sonno arretrato. Quando ci alziamo è ancora buio. Le stelle, in una quantità mai vista, ci par quasi di toccarle, tanto sono grosse e vivide. In fondo, all’orizzonte una striscia di luce giallastra annuncia imminente l’alba. “Tosi, oncò semo in sima!” è la voce cavernosa di Mario che ci scuote e ci rinfranca.
Ci prende l’euforia e non vediamo l’ora di rimetterci in cammino. Battiamo i denti per il freddo: il termometro segna meno 17 gradi. Lasciamo montata la tendina, con dentro tutto ciò che ci pare superfluo, la smonteremo al ritorno. Così, con lo zaino fornito dello stretto necessario, cominciamo a salire. Il tempo è favorevole e l’aria, a poco a poco, al sopraggiungere del sole si stempera . Procediamo in fila indiana lungo la traccia di sentiero che attraversa un immenso e interminabile ghiaione, testimone di inenarrabili fatiche, ma eccezionalmente panoramico. Verso le ore 11.00 avevamo superato quota 6.600 mt. e la salita si faceva sempre più faticosa ed impegnativa. Ai piedi della cabaletta che porta alla cima. Lorenzo si ferma, ha le gambe che non gli rispondono:
per lui la salita termina lì. Mario e Piero sono avanti, non si sono accorti di niente. Ancora 250 metri d’inferno, un tempo interminabile, lungo, tra massi instabili, poi la cresta terminale. Ora l’occhio spazia sulla glaciale parete sud, sono immagini impressionanti, due,tre, quatro,cinque passi e sosta, respiro, ancora cinque e un'altra sosta e respiro affannoso. Di balzo in balzo, è il caso di dire , di passo in sosta e di respiro in respiro, alle 16.00 del 12 gennaio 1994, Mario e Piero sono sulla vetta. Si abbracciano, ridono, piangono e con loro ci sono tutti: figli, mogli, amici, Conselve e la bandiera italiana. Quasi non ci credono. Si guardano intorno, per qualche istante ammirano in basso le vette della Cordillera.Qualche foto, ma, …non vedono Lorenzo.
Pensano che si sia fermato. Ancora uno sguardo intorno, una preghiera su quell’altare di pietra che è l’Acconcagua e via giù, in fretta, al Berlin.
La tendina è come l’avevano lasciata, di Lorenzo nessuna traccia. Eppure, s’era d’accordo di aspettarsi al Berlin …Forse lui avrà pensato bene di scendere??? L’interrogativo li tormenterà tutta la notte ed anche i due giorni successivi, quando, avendo guadagnato di gran fretta il campo base, e non avendovi trovato Lorenzo, il fratello Paolo e i compagni Mario e Piero, disperati organizzeranno le ricerche ed i soccorsi. Un brutto presentimento li torturava e si domandavano tra le lacrime, come avrebbe potuto Lorenzo resistere per due notti al freddo intenso di quelle quote. Per sua fortuna, o per miracolo, Lorenzo, dopo essere scivolato e trascinato per qualche centinaio di metri giù nel ghiaione, si era ripreso. Trascorse la notte all’addiaccio, muovendosi come poteva per non essere sepolto dal pietrisco e morire assiderato. Vide sorgere l’alba seduto sul sentiero che, a prezzo di sforzi immani, aveva guadagnato durante la notte. Incapace di muoversi, disidratato, verso le nove del mattino fu soccorso da un generoso alpinista cecoslovacco che si privò delle sue preziose bevande e lo trascinò giù per qualche centinaio di metri. Lorenzo era veramente malridotto: non si sentiva più le gambe. Fu raggiunto poi dai soccorsi del campo base, dove fu trascinato a forza di braccia e da qui, in elicottero, subito trasportato all’ospedale di Mendoza. Non so descrivervi lo stato d’animo di Mario, Piero e suo fratello Paolo, prima e dopo il ritrovamento: dalla paura e le lacrime, avendolo creduto perso per sempre sulla montagna, passarono a un delirio di gioia nel vederlo comparire al campo base, anche se male in arnese, Lorenzo era vivo. Lui non ricorda niente dell’accaduto, tranne che, quando rinvenne sul ghiaione, la speranza di uscirne vivo non lo abbandonò mai e, non sa nemmeno lui come sia riuscito, col buio e con il gelo, a trascinarsi con un movimento laterale e sul sedere, e raggiungere il sentiero dove l’alpinista cecoslovacco l’avrebbe trovato.
Il fatto in sé può essere insignificante, ma gli amici che hanno vissuto l’impresa e testimoni della disavventura, dicono che Lorenzo si è salvato per un miracolo della Madonna. Nello zaino che lui stesso aveva recuperato dopo la caduta, - era rotolato giù sul ghiaione per 500 o 600 metri - fu trovato soltanto il piccolo quadretto della Madre di Dio che l’amico don Ezio gli aveva affidato, perché lo lasciasse in cima all’Acconcagua, tutto il resto, compresa una preziosa cinepresa, è rimasto sepolto nel pietrisco. Ai quattro amici non è parso vero ritrovarsi sani e salvi e insieme, più che per la conquista della cima, si festeggiò per Lorenzo. …Che festa sarebbe stata senza di lui?
Mario
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